Setak a Roseto degli Abruzzi, l’intervista: «Il mio concerto vecchio stile, decido mentre suono»

Il cantautore sarà stasera al festival ‘Emozioni in musica’. Niente scaletta fissa: «Non voglio il karaoke a cielo aperto. E non mi piace stare in alto sul palco»
ROSETO DEGLI ABRUZZI. Nessuna scaletta fissa, niente sequenze nell’in-ear, zero compromessi. Solo musica viva, imperfetta, vera. È così che Setak si prepara a salire sul palco di Roseto degli Abruzzi per la seconda serata del festival ‘Emozioni in musica’, portando con sé il cuore pulsante del suo ‘Assamanù tour 2025’ e una visione artistica che rifiuta il «karaoke a cielo aperto» dei concerti preconfezionati. A fargli compagnia in questo viaggio sonoro ci sarà Roberto Angelini, una presenza che da sola, come dice Setak, «sposta tutto». Il festival è articolato su tre serate. Ieri l’apertura dedicata a Marco Masini, oggi Setak, domani la chiusura con Noemi.
Parliamo del concerto a Roseto. Sarà diverso rispetto ad altri live?
«I nostri concerti, proprio per come sono concepiti, sono sempre diversi. C’è questa struttura “alla vecchia”, diciamo così: niente sequenze nell’in-ear. Ogni volta cambiano i musicisti, cambiano gli arrangiamenti, cambia proprio l’atmosfera. Anche solo il fatto che a Roseto ci sarà Roberto Angelini alle corde... già quello sposta tutto».
Angelini è una bella novità.
«L’altro giorno abbiamo fatto le prove ed è stato bellissimo. Si porta dietro una decina di strumenti, quindi il suono cambierà inevitabilmente. È questo che mi piace: i concerti devono essere imprevedibili. Se mi va di allungare un solo, lo faccio. Se non mi va un pezzo, lo salto. Voglio sentirmi libero sul palco».
Quindi niente scalette fisse?
«No, infatti i miei musicisti sanno che mi piace cambiare le carte in tavola mentre stiamo suonando. Mi giro e dico: “Questo pezzo lo lasciamo, facciamo quest’altro”. È una scelta, una questione di approccio: un concerto, per me, deve essere vivo. Altrimenti, tanto vale ascoltarsi un live da casa».
Oggi però molti live sono diventati preconfezionati.
«Esatto. Quando tutto è sincronizzato, quando ogni nota è programmata, l’unica differenza tra un concerto a Milano e uno a Caserta è il pubblico. Ma sul palco, tutto è identico, un karaoke a cielo aperto. Io invece voglio che ogni serata sia unica, anche col rischio che qualcosa non funzioni. Ma almeno è vero».
E Roseto che tipo di palco è?
«È un palco grande, è vero. Ma ti dico la verità: a me non piace stare in alto. Il palco in sé mi sembra un luogo poco democratico. Preferisco sentirmi vicino al pubblico, magari mischiato tra la gente. Anzi, se potessi suonare sotto e avere la gente sopra, sarebbe perfetto».
Ha fatto anche palchi molto grandi, no?
«Sì, certo. Mi è capitato. Ma se un giorno diventassi più “importante” e mi trovassi a fare solo arene, cercherei comunque di adattare il tutto al mio gusto. Preferisco gli spazi raccolti, dove posso guardare la gente negli occhi. Tipo... uno dei miei sogni è suonare sulla scalinata di San Bernardino all’Aquila magari in una prossima edizione dei Cantieri dell’Immaginario».
Torniamo al concerto di Roseto: chi sarà con lei sul palco?
«Oltre a Roberto Angelini – grande Bob – ci saranno mio fratello Nazareno (tastiere), Flavia Massimo (viola), Emanuele Colandrea (un cantautore che con noi suona la batteria) e Fabrizio Cesare, che è anche il mio produttore e bassista».
Parliamo di arrangiamenti. In Alè Alessa’ si sentono influenze brasiliane, vero?
«Sì, c’è quella suggestione. Anche nel modo di usare le vocali. Tant’è che più di una persona mi ha scritto pensando fossi brasiliano. Mi piaceva questo incastro linguistico e musicale. In generale, cerco di trattare il dialetto come fosse una lingua internazionale. Non voglio che suoni folkloristico o pittoresco».
E in Cumbà? C’è un canone iniziale, un’impronta diversa.
«Sì, Cumbà la rifacciamo anche stavolta, e con Angelini che fa un solo bellissimo. Anche lì c’è un lavoro sulla struttura, sull’ibridazione. Uso il dialetto per dire cose normali, universali, e lo metto dentro musiche che arrivano da altri mondi. Non voglio correre il rischio che, usando il dialetto, si cada nel goffo. Nella mia musica c’è anche qualcosa di orientale, a volte addirittura greco, come in Pane e cicoria».
In Assamanù invece si nota un uso più marcato dell’italiano. C’è un equilibrio diverso?
«Sì, lì c’è più meticciato tra dialetto e italiano. Ma anche in questo caso è venuto tutto molto naturale. Non mi sono seduto a tavolino dicendo: “Ora scrivo in italiano”. Per esempio, quando ho scritto Figli della soria, la mia compagna l’ha trovata bella ma “strana”. Poi abbiamo capito che la stranezza era proprio l’italiano. Non ci avevo neanche pensato, mi era uscita così, tutta d’un fiato. È un processo istintivo».
A proposito di scrittura, sta lavorando a nuovi brani?
«Sì. Vengo da un periodo tosto, personale. Ora mi sento pronto a scrivere di nuovo. Ho tante idee in testa, sto raccogliendo emozioni. Non posso dire molto, sicuramente queste emozioni finiranno in un nuovo disco. Questo è certo».
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