Carla, la suora antiracket che salva prostitute e trans: «Io, in strada senza paura»

Va a incontrare le ragazze tra Roma e l’Abruzzo: «Porto il Vangelo agli ultimi». Nel 2017 ha fondato l’Oasi Madre Clelia: «Così aiuto le persone a rinascere»
AVEZZANO. Per molti è la suora antiracket. Anche se, da persona semplice qual è, non ama molto questa definizione. Preferisce restare la serva di Dio, chiamata dalla vocazione, pronta a tendere una mano a chi ne ha bisogno, senza indossare mantelli da eroina. Suor Carla Venditti, 64 anni, originaria di Avezzano e appartenente alle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, da anni combatte una battaglia silenziosa e coraggiosa contro lo sfruttamento della prostituzione e a sostegno degli ultimi. La sua “arma” è il Vangelo, portato di notte lungo le strade della prostituzione tra l’Abruzzo e Roma. La sua forza è la preghiera quotidiana. Dal 2017 ha trasformato un’ala dell’istituto Sacro Cuore di via Mazzini ad Avezzano nell’Oasi Madre Clelia: non un semplice centro di accoglienza, ma una casa famiglia dove le ragazze strappate alla strada possono ritrovare una vita dignitosa. Difficoltà, paure, preoccupazioni e sfide della strada le risolve «con la forza della provvidenza». Senza «mai perdere la fiducia nel Signore».
Suor Carla, quando è iniziato questo suo cammino?
«Ho lasciato Avezzano per entrare in convento con le Apostole del Sacro Cuore nel 1981. La vocazione è nata forse un anno o due prima: è stata una cosa molto veloce, una chiamata cotta e mangiata. Ho sentito un desiderio che mi ha stravolto piacevolmente la vita. Sono una persona molto determinata: quando sento che una cosa è mia, devo farla. Mi appartiene».
Cosa si aspettava entrando in convento?
«Non mi aspettavo nulla di specifico. Sono entrata perché ho sentito che mi attendeva un amore molto più grande di quello che stavo aspettando allora, ovvero l’amore di una persona. Era l’amore per il Signore e l’ho capito subito. Ho iniziato il mio cammino con le Apostole del Sacro Cuore, mi sono laureata, sono tornata ad Avezzano e ho fatto l’insegnante per tanti anni».
E l’Oasi Madre Clelia che cosa c’entra?
«C’è stato un dono nel dono. Nel 2015, durante una missione popolare ad Avezzano, è scattato un sogno. Mi sono resa conto che gli ultimi non venivano considerati, erano invisibili. E soprattutto le ultime tra gli ultimi, le ragazze sfruttate, quelle costrette a stare sulla strada, erano ai margini. Abbiamo iniziato ad aiutarle con grande gioia, ma poi ci siamo resi conto che non avevamo un posto fisico dove accoglierle. Noi gli davamo sostegno ma loro ci chiedevano anche un tetto dove potersi rifugiare. Con il permesso dei superiori, abbiamo ritagliato una parte del grande istituto Sacro Cuore di Avezzano. Così è nata l’Oasi Madre Clelia, in onore della nostra fondatrice. Abbiamo inaugurato la casa il 25 novembre 2017 e da quel giorno le nostre porte sono state sempre aperte».
Ci spiega cos’è successo?
«C’è stato un via vai di giovani donne che si sono lasciate accompagnare da noi; non so il numero esatto, posso dire solo che sono state tante. Il nostro non è un percorso clinico legato a figure come psicologi, psicoterapeuti e specialisti, ma un percorso di famiglia. C’è dialogo e abbiamo comprensione reciproca, ci si aiuta a vicenda, come capita in tutte le famiglie. Pensante che una sedicenne figlia di una nostra ospite, parlando a scuola, definisce la nostra Oasi la sua famiglia. Non siamo solo noi a donare qualcosa a loro, ma sono loro a donare a noi: impariamo la pazienza, il rispetto e l’amore. Ci mettiamo costantemente in discussione e soprattutto ci aiutiamo».
Come si vive oggi nell’Oasi?
«Attualmente siamo in otto. Abbiamo accolto giovani vittime di violenza domestica e stiamo seguendo un percorso anche con dei transessuali a Roma. Sono persone straordinarie e ci vogliamo un gran bene. L’Oasi è una realtà consolidata che vuole abbracciare molte situazioni. Anche se ora non abbiamo posto in casa, stiamo aiutando una ragazza all’esterno. Le nostre iniziative, dai mercatini alla vendita dei miei libri, servono a sostenere tutto questo. La provvidenza non ci abbandona mai. Viviamo l’oggi, perché il domani è nel cuore di Dio. Ci prendiamo cura l’uno dell’altro con amore».
Lei combatte da anni contro lo sfruttamento. Ha mai avuto paura?
«Uscire la notte e rientrare alle tre del mattino è rischioso, sono sincera. In giro non si trovano persone tranquille. Tuttavia, non ho paura. Cerchiamo di evitare le situazioni pericolose, anche se l’altra notte abbiamo avuto un episodio spiacevole con una persona squilibrata, ma siamo riuscite a salire subito in auto e ad andare via. Non vado mai sola. Il pericolo spesso non viene da chi aiutiamo, ma da chi gravita in quegli ambienti tra droga e problemi psichiatrici. Però non posso dire di aver paura».
Come vi mettete in contatto con le prostitute o trans?
«Sappiamo dove sono, le raggiungiamo, scendiamo dall’auto e loro ci aspettano. Soprattutto a Roma. Le zone maggiormente frequentate ormai le conosciamo tutte. Anche tra loro la voce della nostra presenza si è sparsa, sanno che ci siamo e che possiamo aiutarle».
Perché la aspettano? Cosa le chiedono?
«A volte cercano anche semplicemente una parola di conforto, ma soprattutto cibo e aiuto. Grazie alla collaborazione con la Caritas di Roma, che non finirò mai di ringraziare per questa bella collaborazione, ogni venerdì portiamo pacchi alimentari. Non ci si rende conto dall’esterno che queste sono persone poverissime che hanno fame perché non hanno nulla. Quando ci fermiamo a parlare con loro ci raccontano che nella maggior parte dei casi essendo persone transgender non trovano lavoro e quindi finiscono in strada. Sono persone dall’animo buono, speciali. Ci aspettano perché sentono che vogliamo loro bene. Un giorno, una ragazza ha detto a una nuova arrivata: non ti preoccupare, loro non ti giudicano. È stata la frase più bella che potessi ascoltare. Il giudizio cade quando ascolti certe storie. Noi lo sappiamo che non vorrebbero stare lì, ma alcune di loro spesso non hanno alternativa».
Qual è la storia più significativa che ha visto sbocciare nell’Oasi madre Clelia?
«Di storie belle ce ne sono tante, sinceramente faccio fatica a individuarne una in particolare. Sono molto felice quando vedo, soprattutto sui social, le ragazze uscite dall’Oasi che ora hanno una famiglia, un lavoro, dei figli. La maggior parte di loro è lontana da qui, molte vivono nel nord Italia e ci teniamo in contatto tramite i social. Ci sono anche persone che prima rifiutavano ogni contatto fisico e che ora vogliano aiutare gli altri. Ci sono persone che arrivano da noi e all’inizio sono così ferite e diffidenti da non voler essere sfiorate. Abbiamo una ragazza vittima di violenza, con due figli, di cui uno autistico, che prima aveva timore di qualsiasi contatto. Ora però ne è uscita, si prende cura dei suoi figli e resta in contatto con noi».
Faccia un esempio...
«Ci sta aiutando con una donna nigeriana che non aveva nulla. Era sola e chiedeva l’elemosina davanti ai supermercati per sfamare la figlia, fino a finire in ospedale. Quando le ho chiesto cosa fosse accaduto, perché fosse stata ricoverata, mi ha risposto: o mangio io o mangia mia figlia. Non potevamo permetterlo, siamo dovuti intervenire. A casa non c’è posto per loro due, ci siamo messe a cercare ovunque, abbiamo chiesto a tutti. Purtroppo affittare una casa volte sembra impossibile. Abbiamo un pezzetto di terra, l’idea è di realizzarci un’abitazione, ma i tempi sono ancora lunghi. Ancora una volta, però, grazie alla provvidenza, siamo riusciti a trovare una sistemazione per questa donna. Grazie alla disponibilità di don Gabriele Guerra, parroco di Celano, le abbiamo trovato una sistemazione provvisoria. E la nostra amica si preoccupa di questa donna, proprio come noi abbiamo fatto con lei».
Dove trova la forza per un impegno così gravoso?
«Me lo chiedo anch’io, a volte. Proprio giorni fa, in chiesa, durante la novena dell’Immacolata, mentre pregavo, mi sono chiesta: Signore dove trovo tutta questa forza? Sapete già la risposta».
Quale?
«La trovo solo nella preghiera. Noi all’Oasi madre Clelia abbiamo scommesso sulla preghiera e siamo state ripagate. È lì che troviamo la forza di non scoraggiarci mai. Il Signore trasforma la mia quotidianità in fiducia e sono felice».
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