Sono tornato nel paese che non c’è più. Sono tornato nella mia Onna. ...

Sono tornato nel paese che non c’è più. Sono tornato nella mia Onna. Dovevo recuperare poche misere cose. Qualche buono postale, una cartella con i documenti di un’altra vita, quella sparita nella notte dell’orrendo scossone, le foto dei miei figli. Sono arrivato poco dopo le 10. Prima tappa i vigili del fuoco. Solo con loro si entra nel paese spettrale. Sono gentili, non mi fanno aspettare. Mi accompagnano in quattro. Sono appena giunti da Roma a dare il cambio ai colleghi della prima ora. Danno un casco a me e mia moglie. Partiamo da via delle Massale e ci dirigiamo verso la piazza della chiesa. Gli occhi frugano cercando quello che c’era. Una finestra, una porta, un tetto. Ma la vista è come annebbiata. Tutto appare indistinto.

I balconi toccano terra, i tetti sono spuntoni confusi di legno e cemento. Vedo poltrone, letti, materassi. Oggetti della vita quotidiana, spinti fuori da una forza tremenda, simboli di morte e disperazione. La piazza, semplicemente, è svanita. Lo spazio della comunità, della festa, dei riti e della tradizione ha l’odore della polvere e il colore del legno marcio. Palazzo Zuppelli, a fianco alla chiesa, fu costruito a cavallo fra il 1700 e il 1800. Lo realizzarono i duchi Di Costanzo che a Paganica avevano il loro centro operativo principale.

A Onna vollero la loro casa di campagna che più tardi passò al conte Giuseppe Zuppelli nobile romano che arrivò ricco e morì povero in canna subito dopo la seconda guerra mondiale. Quel palazzo per oltre duecento anni ha resistito a terremoti e alluvioni. Aveva, tutto intorno, proprio sopra alle finestre che davano sulla piazza, una scritta in latino. Eccola (tradotta): piccola casa, grande quiete.

Quella notte del sei aprile, nella quiete di quella bella casa c’erano tre persone: Emma, Stefania e Paolo. Nonna, mamma e figlio. Travolte dall’orribile scossone. La chiesa di San Pietro Apostolo ora è solo un vuoto contenitore. Le opere d’arte sono state portate via. Ma una buona notizia c’è. Me la dà Paolo, il priore della Congregazione di Onna. Il 10 maggio la festa in onore della Madonna delle Grazie si farà: non ci saranno bande e orchestre, non ci saranno fuochi pirotecnici. Nel campo degli sfollati sorgerà un altare realizzato con le macerie. Sopra sarà posta la statua della Madonna. Sotto gli onnesi a pregare. Ancora. Sempre. Nonostante tutto. Antonella mi dice: i vigili del fuoco hanno recuperato nelle case distrutte tante immagini della Madonna. Tutte erano rimaste appese ai muri. Nessuna è stata trovata a terra. Per me che ho perso due figli suona quasi beffa.

Vado avanti. Dietro le spalle lascio una lunga scia di dolore. Risalgo verso via dei Calzolai. Non si passa. Proprio all’altezza di quella che è stata casa mia le macerie sono una montagna. Siamo costretti a fare un largo giro. L’abitazione dove nel giugno del 1944 si consumò la strage nazista è spaccata in due proprio come allora, quando fu distrutta dalle bombe. Via delle Siepi è bloccata dalle pietre. La raggiungiamo da dietro, a fatica, camminando per stradine improvvisate.

Vedo la casa di Tiziana e Pasquale. Genitori nel dolore. In quella notte l’orrendo scossone ha tolto loro Benedetta e Susanna. Durante il pranzo al campo ci guardiamo e salutiamo: poche parole, il silenzio disperato di una vita che ti punisce. C’è anche Tonio, il papà di Fabio. Mi racconta quella notte e parla del suo ragazzo come se fosse ancora lì con noi. Tradito da un gesto di generosità: era andato a dormire dall’anziana nonna per farla stare più tranquilla.

Arrivo a casa mia. La finestra aperta è quella dove dormiva Maria Paola, il mio angioletto. La camera di Domenico non si vede più. Sparita. Dico ai vigili del fuoco che cosa vorrei recuperare. Sono rapidi. Si muovono con grande professionalità. Portano giù anche le foto dei miei figli. Le guardo e il cuore sobbalza. La rabbia si fa disperazione. Poi accarezzo i loro volti: papà e mamma sono ancora qui. Perdonateci se potete. Il pensiero va poi alla mia biblioteca. L’avevo intitolata a Maria Paola e Domenico. Il piccolo edificio sembra integro. Ho recuperato la chiave.

I vigili del fuoco mi precedono e aprono. I libri, quasi 4000, sono tutti a terra. Ma ci sono. Un giorno li potrò recuperare. Con me c’è anche una collega che a bruciapelo mi chiede: come fai a pensare ai libri con tutto quello che è successo? Gli spiego che chi ha perso tutto deve pur attaccarsi a qualcosa. In realtà quella biblioteca era nata anche grazie al lavoro e all’entusiasmo dei miei figli. Salvarla è salvare il ricordo.

Me ne vado da casa mia con una busta in mano. Mi allontano e non so se tornerò. Al campo degli sfollati vedo tanti amici, trovo tanta solidarietà. C’è chi parla del futuro, di come Onna potrà risorgere dalle macerie. Presto nascerà un’associazione che sarà chiamata a gestire il futuro. In tanti hanno già aderito. In tanti vogliono capire ed essere ascoltati. La strada sarà lunga. Molto lunga. Come era bella la mia Onna.