Caccia al bombarolo in tutto l'Abruzzo Di Santo introvabile: combatto per il lavoro

12 Gennaio 2013

Sul suo sito le motivazioni dei roghi e dell’ordigno a Villanova e a Chieti. Ricerche a tappeto dei carabinieri. È probabile che sia rimasto in zona

PESCARA. Non si trova, ma non è andato lontano. Roberto Di Santo scappa e si nasconde da quattro giorni, da quando ha dato fuoco all’auto dei vicini di casa a Villanova di Cepagatti e subito dopo ha fatto ritrovare nell’appartamento al piano terra della sorella, nella stessa via Piemonte, un ordigno da innescare con sensori acustici e di movimento piazzati in tutta la stanza. Scappa e si nasconde, il 58enne originario di Roccamontepiano, ma intanto butta qua e là sassolini per gli investigatori. L’ultimo, inquietante come i primi, l’ha fatto ritrovare giovedì sera a Chieti, in piazza San Giustino, dove ha dato alle fiamme la sua vecchia Toyota Starlet proprio a ridosso dell’ingresso del Tribunale. Un obiettivo non casuale se si leggono gli scritti che Di Santo ha pubblicato sul suo sito (www.rodisan.it), dove l’ingiustizia sociale, le tasse inique e il lavoro che non c’è prendono di mira, tra gli altri, politici e magistratura. «In legittima difesa di chi soffre combatterò contro questo vecchio sistema e contro chi non vorrà i cambiamenti con ogni mezzo, cercando di non sfiorare nessun uomo» si legge nella sua lettera aperta al presidente della Repubblica. Ma è proprio questa esasperata sete di giustizia che preoccupa maggiormente gli investigatori, impegnati in una corsa contro il tempo per evitare che Di Santo possa proseguire nella sua folle battaglia. Un piano sicuramente ben studiato il suo, che ha preso a pretesto le ultime liti con i vicini di casa della sorella, gli inquilini al piano di sopra della trifamiliare di Villanova, per dare la stura a un risentimento ben più ampio, che si trascina da anni.

È proprio dal suo profilo psicologico che i carabinieri del comando provinciale di Pescara diretti dal colonnello Marcello Galanzi sono partiti per cercare di anticipare le mosse di un uomo che appare pronto a fare sul serio ma, al tempo stesso, sembra avere tanta voglia di farsi prendere. Solo così si spiega l’incendio appiccato a Chieti giovedì sera, appena due giorni dopo il primo attentato incendiario, quando era talmente consapevole di essere ricercato da spostarsi con la Toyota Starlet fino al Tribunale di Chieti con una targa sovrapposta, quella di un vecchio furgone ormai in disuso, aiutato dalla telecamera del Palazzo di giustizia che non funzionava e dal faccia a faccia televisivo tra Berlusconi e Santoro che a quell’ora di giovedì teneva mezza Italia incollata al televisore, compreso il custode del Tribunale.

Ma è i riflettori che Di Santo insegue, e ora che finalmente è riuscito ad accenderli sembra non voler in nessun modo lasciare la scena. Per questo non è escluso che torni a farsi vivo a breve, per questo gli investigatori che da quattro giorni lo stanno cercando in divisa e in borghese, a piedi, con le auto e in elicottero, hanno fretta di fermarlo. Finora, con le sue gesta, Di Santo ha inanellato un’accusa per strage che lo porta a rischiare fino a 15 anni di carcere, e un’altra per danneggiamento aggravato motivato dall’auto bruciata a Chieti, dove le fiamme hanno raggiunto il portone e tutta l’arcata dell’ingresso. Un episodio, anche questo, che può essere letto in chiave psicologica: nel 2003 fu proprio dal Tribunale di Chieti che partì il suo arresto per la pistola con silenziatore che lui stesso si era fabbricato. Chi lo conosce bene a Roccamontepiano, il paese di origine della famiglia, racconta infatti che proprio da quel momento, è storia di dieci anni fa, iniziarono i suoi guai, con il matrimonio finito, la separazione dalla moglie e dai due figli e il lavoro che cominciò ad andare male: aveva una piccola impresa specializzata in lavori di ristrutturazione, Di Santo, bravo al punto che in tutta la zona di Roccamontepiano viene usato ancora il suo brevetto per pulire le canne fumarie dei camini. E invece la dovette chiudere.

«In questi miei ultimi 18 mesi», scrive sempre nella lettera aperta al presidente della Repubblica, «costretto a lavorare in nero per il poco lavoro e la mancata tutela, dei 14.600 euro guadagnati con il sudore 5.200 non mi sono stati ancora pagati e 6.200 il sistema me li ha carpiti con destrezza». E ancora: «Io sono colpevole, ma portando tutta la mia vita in giudizio si vedono le regole sociali sbagliate che portano alla legittima difesa sociale dei singoli come me». E poi: «Con gli ultimi intendimenti politici contro la crisi, con i tagli e il dover annullare molti posti di lavori non produttivi, molti come me verranno distrutti completamente. Come faranno a vivere quelli che perderanno il posto di lavoro? Queste mie azioni, signor presidente, che dal vostro punto di vista vedete come reati, sono un’autodifesa. Soprattutto mi dà ragione di agire così, quell’innata autodifesa che ogni uomo attua, quando vede la sua vita in pericolo».

Tutti stralci che raccontano di una motivazione che per Di Santo arriva da lontano e che i vari filmati lasciati su you tube e le pubblicazioni come quella in cui si presenta come «Ultimo profeta» sono solo il prologo dell’atto finale di cui si sta rendendo protagonista, seminando ansia e preoccupazione.

Dove sta e dove si nasconde, come si muove e chi lo sta aiutando? Sono questi, adesso, gli interrogativi degli investigatori (le indagini dei carabinieri sono coordinate dalla pm Silvia Santoro). Considerando le sue scarse risorse economiche è facile ritenere che non sia andato lontano ma, anzi, sia rimasto in zona, nascosto nel suo vecchio camper bianco e verde. Escluso, per ora, l’eventuale appoggio di terzi: Di Santo ha pochi amici tra Chieti, dove abita il padre e dove andava lui stesso a dormire, Roccamontepiano dove è stato visto l’ultima volta sotto Natale, e nella zona di Serramonacesca. Persone «normali», perbene, tutte ascoltate dai carabinieri. «Sono malridotto e non voglio sentire nessuno», dice intanto dalla sua casa di Chieti Michele, il padre 82enne.

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