Denunce e complotti ecco i veleni archiviati

20 Aprile 2013

Le motivazioni dei giudici escludono la strategia del fango degli imputati contro gli investigatori e una persecuzione ai danni di Cantagallo

MONTESILVANO. Ruotava intorno alle tangenti pagate durante finti sopralluoghi nei cantieri per ottenere appalti pubblici, girava il dito negli aumenti di cubatura per gli imprenditori amici, smascherava le tasse scontate alle ditte del mattone che, a loro volta, regalavano al Comune soltanto opere pubbliche fatte al risparmio. Ma l’inchiesta Ciclone aveva uno sfondo di veleni: uno scontro perenne tra accusati e accusatori. Una partita a risiko cominciata già dalle prime perquisizioni, continuata nelle aule del tribunale di Pescara durante il processo e terminata con la sentenza che, il 28 dicembre dell’anno scorso, ha scritto la prima verità giudiziaria sul presunto malaffare al Comune di Montesilvano. «Un complotto contro di noi», questo hanno sempre gridato gli indagati diventati negli anni imputati, a partire dall’ex sindaco Pd Enzo Cantagallo. «Fango contro di noi», questa la risposta degli investigatori della squadra mobile e del pm Gennaro Varone.

Ma la sentenza del tribunale ha cancellato questa sfumatura da film giallo con gli accusati che cercano di fare la loro mossa sempre prima degli accusatori: in 18 pagine scarse, il presidente del collegio giudicante Carmelo De Santis e i giudici Nicola Colantonio e Paolo Di Geronimo azzera la teoria del doppio complotto, quello degli indagati contro i poliziotti e i magistrati e quello di poliziotti e magistrati contro gli indagati.

Ma se la sentenza mette un punto fermo – con le assoluzioni dal reato di calunnia di Cantagallo, dell’ex capo di gabinetto Lamberto Di Pentima, degli ex assessori Gugliemo Di Febo e Cristiano Tomei e dell’ex dirigente Ronaldo Canale «perché il fatto non sussiste» – resta senza nome e cognome l’informatore degli indagati, cioè il protagonista di un retroscena di parole dette e non dette, mezze ammissioni e mezze ritrattazioni: «È incontestabile che gli amministratori del Comune erano ben consapevoli che la procura, per mezzo della squadra mobile, stava svolgendo indagini pur non risultando individuata la fonte che aveva dato luogo alla fuga di notizie». Una fuga di notizie «clamorosa», così era per gli inquirenti, ad appena un pugno di giorni dall’avvio delle intercettazioni telefoniche: in aula, durante la requisitoria, il pm Varone aveva invitato a guardare a un magistrato all’epoca dell’inchiesta Ciclone nel 2006 in servizio a Pescara. Ora, forse, non sapremo mai chi è stato a dire che Cantgallo e gli altri erano sotto inchiesta.

Sulle pagine delle motivazioni, i giudici ripercorrono il caso di Di Pentina, assolto dal reato di favoreggiamento, che a un pm di Pescara aveva denunciato la presunta incompatibilità di Nicola Zupo, ex capo della Mobile, a indagare su Montesilvano per «due ordini di motivi» e cioè perché la moglie era ed è ancora comandante dei vigili urbani a Montesilvano e perché, a detta di Di Pentima, tra lei, Antonella Marsiglia, e Cantagallo ci sarebbe stata una presunta relazione. Secondo, i giudici Di Pentima non voleva gettare fango ma «esercitava una legittima facoltà, rivolgendosi all’autorità deputata a valutare la fondatezza delle proprie asserzioni». Comunque, dicono i giudici, «nessun elemento di prova è idoneo a dimostrare la effettiva sussistenza di una relazione sentimentale tra Marsiglia e Cantagallo».

Ma il primo tassello di quella strategia del fango era un esposto anonimo contro Zupo e contro un altro poliziotto che aveva indagato sul Comune di Montesilvano, l’ispettore capo Franco Nonni: «Forse qualche poliziotto ha gli occhi chiusi», così si apriva il documento, «le voci e le lettere anonime che per mesi sono circolate tra Montesilvano e Pescara gli hanno offuscato la vista?». Per i giudici, nonostante le intercettazioni portate dall’accusa, «le risultanze processuali non permettono di affermare, con certezza, che i prevenuti siano stati gli autori dell’esposto anonimo». Poi, sulla denuncia, era citato anche l’architetto Aurelio Colangelo: «Può essere che anche gli inquirenti siano diventati strumenti del Colangelo?». «Occorre aggiungere», scrivono i giudici, «che è dimostrato che nell’ente erano circolate numerosissime lettere anonime e che anche Zupo nella richiesta di astensione aveva evidenziato di aver ricevuto un esposto anonimo. Per completezza, preme evidenziare che la frase contenente la domanda inerente il dubbio che gli inquirenti fossero diventati uno strumento di Colangelo poteva effettivamente avere un contenuto idoneo a far dubitare della imparzialità degli agenti che stavano effettuando le indagini sui fatti che coinvolgevano gli amministratori del Comune: pertanto, poteva costituire la segnalazione di un fatto avente rilevanza penale». Ma Cantagallo, nel 2006, i suoi dubbi li aveva affidati al questore, al procuratore capo e al prefetto di allora: «Tali atteggiamenti», per i giudici, «mal si conciliano con l’assunto che i prevenuti volessero sostenere le proprie doglianze celandosi dietro un documento anonimo».

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