Tangenti Pescara, assolto Luciano D'Alfonso Spazzata via l’inchiesta, Varone farà ricorso

12 Febbraio 2013

Da Ciclone a Housework, i giudici hanno demolito le indagini del pm più temuto dai politici

PESCARA. Il ragionamento deduttivo del pm Gennaro Varone contro l’assioma di Luciano D’Alfonso, biglietto da visita dell’intero processo («Sfido qualsiasi imprenditore a dire di avermi dato dei soldi»). Il do ut des tra politico e imprenditori ipotizzato dalla procura contro i rapporti d’amicizia vantati con orgoglio dall’ex sindaco, frutto della capacità di tirar su relazioni. Una forbice larghissima, tra due posizioni antitetiche, nella quale il tribunale non ha visto irregolarità, non ha scorto tangenti, non ha notato favoritismi. la linea tracciata dal processo Ciclone su appalti e tangenti al Comune di Montesilvano sembra avere trovato nel processo “pescarese” il suo naturale ed eclatante sbocco: c’è reato solo là dov’è c’è mazzetta. Chiara, precisa, confessata. Il resto è rimasto un postulato, è diventata suggestione, in entrambi i processi è sfociato a volte nel folklore.

La maxi assoluzione di ieri ha reso una Caporetto l’inchiesta della procura, così come le 13 condanne di Ciclone su 32 imputati erano state una vittoria di Pirro. Due collegi diversi (quello presieduto da Carmelo De Santis, questo da Antonella Di Carlo), ugual modo di soppesare le accuse: per Montesilvano, hanno fatto breccia nel tribunale solo la tangente confessata dall’imprenditore Bruno Chiulli, arrestato a suo tempo e liberato il giorno stesso dell’interrogatorio di garanzia dopo una confessione fiume in tribunale, e quelle – intercettate al telefono – sull’appalto relativo alle fogne di via Adige. Tanto è bastato per infliggere 5 anni e l’interdizione perpetua all’ex sindaco Enzo Cantagallo, ma senza più il patto tra amministratori e imprenditori, senza quell’associazione per delinquere base e linfa del Sistema Montesilvano ipotizzato dagli inquirenti. Così, Ciclone ha perduto la forza propulsiva. Per D’Alfonso, non sono bastati una villa dal valore oscillante sulla quale anche il perito del pm ha mostrato esitazioni, conti correnti dagli impercettibili movimenti giustificati con altre entrate familiari, una lista Dezio di versamenti ridotta evidentemente a un semplice elenco di finanziamenti alla Margherita, un rapporto d’acciaio con Toto ma non tale da favorirlo nel milionario appalto dell’area di risulta come ammesso anche da un perito dell’accusa. Alle strette, nessun imprenditore ha detto di avere pagato tangenti a D’Alfonso. E il tribunale ha spazzato via tutto. Alla lettura della sentenza, Varone è schizzato fuori dell’aula, è salito al quinto pianto, si è chiuso per mezz’ora nell’ufficio del nuovo procuratore Federico De Siervo, mentre a Montesilvano, ospite di un convegno, l’ex procuratore Nicola Trifuoggi evitava commenti. Anche Varone, una sfinge alla lettura della sentenza, è rimasto in silenzio. Aveva messo in conto una conclusione opposta a quella sua, ma lo sconcerto resta. Farà appello, è scontato. Dovrà scavare nei residui di fiducia per rimontare una sentenza così ripida.