ESCLUSIVO | Nathan e Catherine, ecco la lettera ai giudici: «Scelta consapevole contro la società tossica»

I due genitori: «Ci ispiriamo a un modello primordiale delle popolazioni indigene. I nostri valori sono pace, non giudizio, rispetto e inclusione»
PALMOLI. «Noi, genitori consapevoli che desiderano una vita diversa per i nostri figli, abbiamo deciso con grande impegno di andare contro le norme della società e di tornare al modo in cui la natura stessa è stata progettata per crescere i bambini, per la loro salute, la loro pace, la loro crescita e, soprattutto, per il loro futuro». È un manifesto filosofico, non una semplice memoria difensiva.
La voce della coppia che vive nei boschi di Palmoli, al centro di un’aspra battaglia legale per l’affidamento dei tre figli, emerge nelle pagine depositate in tribunale. È la loro contro-narrazione. La risposta radicale di Nathan Trevallion e Catherine Birmingham all’accusa di «grave pregiudizio» formulata dalla procura per i minorenni dell’Aquila, che ha chiesto di togliere loro i bambini – una di otto anni e due gemelli di sei – dopo che i servizi sociali e i carabinieri hanno descritto una vita in un rudere fatiscente, senza acqua corrente, luce né servizi igienici.
Mentre gli atti giudiziari dipingono uno scenario di inadeguatezza, la coppia anglosassone replica descrivendo non una negligenza, ma una scelta consapevole. Un atto di protezione estrema per salvare i figli da un mondo che, sostengono, ha già fallito. La loro, scrivono, è una fuga deliberata da una società che ritengono «tossica»: «Dove un tempo c’erano aria e acqua pulita», accusano, «noi li abbiamo avvelenati, impoveriti e uccisi». Un mondo dove i bambini, che un tempo crescevano in «libertà, amore e felicità», oggi sono «stressati, malati, separati ed emotivamente sofferenti».
Precisano di essere supportati da «innumerevoli esperti» in vari campi, consapevoli dei danni profondi che la modernità arreca ai più piccoli a livello mentale, fisico ed emotivo. È per questo, spiegano, che hanno acquistato una proprietà «senza debiti o mutui» in Abruzzo: per offrire ai figli ciò che «noi stessi non abbiamo mai avuto». Genitori presenti a casa, «cibo e aria puliti», e un ambiente benefico per il loro «sviluppo cerebrale e fisico».
I loro antenati, si legge nella memoria, vivevano e crescevano i figli in armonia con la terra; i bambini erano «sicuri, amati, curati». È a quel modello primordiale, quello delle «popolazioni tribali e indigene», che dicono di ispirarsi. La memoria affronta poi, punto per punto, le accuse contenute nelle relazioni istituzionali, bollandole come false, distorte o frutto di un pregiudizio culturale.
La casa? Rigettano la descrizione di «rudere. Sono stati e vengono eseguiti tutti i lavori necessari per la sua sicurezza», scrivono, e nel frattempo, in attesa che i lavori siano completi, utilizzano «una vita alternativa nella nostra proprietà», nel pieno rispetto dei loro diritti costituzionali. Lì, assicurano, i figli sono «al sicuro, al caldo e puliti». Anche sullo stato dei bambini, la loro versione è diametralmente opposta a quella degli atti. Sostengono che i piccoli hanno «dimostrato senza ombra di dubbio» di essere «lavati, sani e in salute». Lamentano che «numerose lettere di supporto» da parte di professionisti, amici e vicini, che attestavano il loro benessere, siano state «tutte ignorate» dalle autorità.
Persino il bagno a secco, citato nelle relazioni come simbolo di condizioni igieniche precarie, viene difeso. Non è un segno di indigenza, ma una scelta ecologica: un «utilizzo sicuro ed estremamente comune» per il risparmio idrico, in linea con la loro filosofia ambientale. La battaglia più dura, però, si combatte sull’educazione e sull’isolamento.
I genitori rivendicano con forza la scelta dell’«unschooling», l’educazione non scolastica. Raccontano di essere fuggiti, in precedenza, proprio per proteggere i figli «dal trauma di essere costretti ad andare a scuola» e dalla «terribile minaccia» che venissero «rapiti» da un sistema «che non si allinea con la nostra morale». La scuola, per loro, è un’istituzione coercitiva, il luogo dove i bambini indigeni, in passato, «venivano costretti a dimenticare le loro lingue e le loro pratiche spirituali».
Ma i loro figli, insistono, non sono affatto isolati. «Vivono costantemente la società attraverso gite e uscite settimanali a negozi, parchi, amici e vicini». Citando «studi approfonditi» condotti in 20 anni, i genitori affermano che i bambini cresciuti in questo modo, una volta entrati nella società, sono «più sicuri di sé, ben integrati, sicuri, felici e produttivi» rispetto a quelli cresciuti secondo le norme. Sono, scrivono, «autonomi, liberi di pensare, compassionevoli, connessi, creativi e intelligenti», proprio perché non sono stati repressi o costretti a seguire un «sistema guidato dall’avidità».
La memoria si trasforma poi in un atto d’accusa. I genitori si sentono vittime di un attacco premeditato, di una persecuzione. Denunciano di aver subito «condanne, giudizi, incomprensioni, pregiudizi e attacchi spaventosi», e di essere stati attaccati «per aver scelto di vivere in modo diverso». Nonostante loro, dichiarano, abbiano sempre portato «inclusione, non giudizio, rispetto e pace».
Tracciano una linea netta tra l’operato delle istituzioni in Abruzzo e l’esperienza avuta a Bologna, durante una delle loro fughe. Lì, osservano, polizia e servizi sociali li trattarono «con rispetto e cura», arrivando a dire che i servizi abruzzesi «non avevano assolutamente alcun motivo per allontanarli da noi» solo perché vivevano in una casa più piccola e isolata.
La risposta della famiglia alla pressione giudiziaria, infine, è stata la più radicale possibile. Dopo essere stati «costretti ad abbandonare la nostra terra e la nostra casa non una, ma ben tre volte» e aver subito «numerose azioni ingiuste e traumatiche», i genitori hanno adottato una misura legale estrema, che porta lo scontro su un piano superiore.
Hanno istituito un «trust privato». Si tratta di un istituto giuridico, spesso mutuato da contesti anglosassoni e utilizzato da movimenti che contestano la sovranità statale, con cui la coppia cerca di blindare il nucleo familiare. In questa particolare costruzione legale, i genitori, in qualità di amministratori (trustee), trasferiscono i figli, come fossero beni, all’interno di questo veicolo privato. L’obiettivo, nella loro visione, è creare uno scudo assoluto, una sorta di secessione legale che renda i minori non soggetti all’autorità dello Stato e dei suoi organi, come i tribunali o i servizi sociali. Questo, scrivono, «ci protegge da qualsiasi ingerenza dello Stato su di noi e sulla nostra proprietà in trust, ovvero i nostri figli e le nostre figlie». L’unica cosa positiva che possono trovare in questa situazione è la speranza di una sentenza che mostri sostegno «ai genitori e alle famiglie che scelgono di fare tutto il possibile per invertire il corso della distruzione».
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