L’intervista al cardinale Zuppi: «Senza il perdono non può esistere futuro»

Il presidente della Conferenza Episcopale Italiana al Centro: «Da Celestino lezione di umiltà che libera dal potere»
L’AQUILA. Tra le pietre di Collemaggio e la memoria di Celestino V, la Perdonanza continua a parlare con voce antica e sorprendentemente attuale. In una società segnata da conflitti, divisioni e paure, il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, richiama in questa lunga intervista al Centro il valore del perdono e della speranza, radicando il messaggio celestiniano nel presente e proiettandolo verso il futuro.
Eminenza, la Perdonanza Celestiniana custodisce un messaggio antico, ma sempre attualissimo. Quale significato assume oggi anche in una società segnata da divisioni e da conflitti?
«A maggior ragione la pace richiede la giustizia e come è noto vanno sempre insieme, pace e giustizia. Non a caso anche nell'attuale ricerca della pace in Ucraina si dice sempre che sia una pace giusta. Dobbiamo dire che giusta è la pace, ma non c'è pace senza perdono. Perché il perdono affranca dai frutti del male. Non c'è perdono senza giustizia: il perdonare non elimina la giustizia. Anzi, sono convinto che se c'è il perdono a maggior ragione si liberi nel cercare la giustizia proprio perché è senza vendetta. Ma non c'è pace senza perdono e dobbiamo preoccuparci di tanti odi che non si sono riconciliati, di tante conseguenze. La guerra produce conseguenze di inimcizia, di divisione, di odio, quindi di vendetta e solo il perdono libera da questo. Non c'è pace senza giustizia, ma non c'è pace anche senza perdono».
Papa Celestino V è sicuramente una figura che incarna umiltà e servizio. Che cosa può dire al mondo contemporaneo un pontefice che di fatto è il pontefice del rifiuto al potere?
«Di pensare che il potere serve soltanto quando è vissuto come servizio. Altrimenti quando il potere è per la considerazione personale o ancora peggio per interessi personali o di gruppi è molto più volatile e soprattutto perde la sua funzione. Giustamente lei sottolinea la questione dell'umiltà. Umiltà è molto diverso da non fare le cose, dalla rinuncia. L'umile non rinuncia, ma sceglie sempre quello che è utile agli altri e quindi è utile anche a lui. Mentre molte volte il potere serve solo per quello che è utile a sé o alla propria considerazione. Allora penso che Celestino con il suo grande rifiuto, ma nella sua convinzione di umiltà e di servizio, indubbiamente ci dà una grande lezione anche di libertà dal potere e di utilizzare sempre il potere per il bene di tutti e non per un uso personale».
All’Aquila, città segnata dal terremoto del 2009, la Perdonanza è diventata anche un’occasione di rinascita. Che valore ha questo intreccio tra fede, storia e ricostruzione?
«Direi che fa parte proprio della vita. Il perdono è anche sempre una grande ricostruzione, ricostruzione della persona offesa, deformata dal male, dal peccato che vuol dire il male, vuol dire quello che ci fa male a noi e agli altri. Il perdono è anche la ricostruzione delle relazioni perché se non c'è il perdono le relazioni restano segnate dalla divisione. Soltanto il perdono riesce a ricostruirle. C'è questo legame molto profondo, credo che anche perché la fede non è mai una dimensione astratta, teorica, ma si incarna sempre nelle situazioni e nel tempo e quindi penso che è un legame che ha già dato e darà sicuramente molti frutti».
Nel 2020 ha avuto l’onore di aprire la Porta Santa di Collemaggio. Che cosa ha provato in quel momento e quale valore attribuisce a quel gesto?
«Molta emozione per i miei legami anche con la città dell'Aquila, i miei genitori si sposarono lì e quindi per certi versi anche la vita della mia famiglia nasce all'Aquila. Molta emozione perché in quel momento, ancora segnato dalla sofferenza del terremoto e dal Covid, c'è stata un'altra divisione, un altro isolamento e un'altra ricostruzione necessaria. Credo che quella porta sia una porta di tanta speranza, per questo l'ho vissuta con molta emozione, con molta consapevolezza del presente, ma anche con tanta spinta per il futuro».
L'Aquila conserva ancora viva la memoria della visita di Papa Francesco nel 2022. Quale eredità spirituale e pastorale ha lasciato secondo lei quell'evento?
«Una grande prospettiva di speranza e anche la consapevolezza della solidarietà, del pensarsi insieme. Papa Francesco ha sempre insistito sulla solidarietà come la dimensione che permette di sperimentare l'essere comunità. L'essere comunità non è teorica, la solidarietà è l'espressione concreta del pensarsi insieme. Credo che sia stata una grande lezione di speranza, una grande consolazione perché la ferita del terremoto è profondissima, ma proprio per questo anche di tanta speranza».
Secondo la sua esperienza personale, che cosa significa essere custodi della misericordia, come ha ricordato Papa Francesco all’Aquila durante la sua visita?
«Custodi della misericordia vuol dire essere vicino alle conseguenze del male che divide, deprime, fa sprofondare nell'inutilità della rassegnazione. La misericordia rigenera, per cui uno non è mai il suo peccato, non è mai il suo problema. La misericordia ricostruisce anche la persona e la comunità e non è possibile farlo senza misericordia. Per questo credo che quella Porta ha permesso a tanti di uscire da un senso di rassegnazione e ha riaccesso tanta speranza».
L’Abruzzo con le sue comunità offre un esempio di resilienza. Che contributo possono dare le realtà locali alla Chiesa Universale attraverso la Perdonanza?
«Innanzitutto in assoluto, perché le comunità locali possono dare tanto. La Chiesa è fatta di tante comunità e non c'è piccolo o grande. Nella Chiesa tante volte quello che sembra più piccolo in realtà compie le cose più grandi. In più c'è la Perdonanza, cioè questa forza ulteriore di affrancarci dal passato e di guardare il futuro. Ma le piccole comunità, anche nelle aree interne che qualche volta sono purtroppo dimenticate e su cui troppo poco si ha speranza, in realtà sono il nostro passato, ma possono essere anche il nostro futuro».
Quest’anno la celebrazione si inserisce in un tempo complesso per la Chiesa e per il mondo. Che messaggio si sente di rivolgere ai giovani che partecipano?
«Di guardare sempre con tanta speranza, non perché le cose vanno bene. Qualche volta confondiamo la speranza con le cose che vanno bene o l’abbiamo soltanto quando ci sembra di potercela fare. La speranza c'è quando proprio ci sembra di non potercela fare, quando sembra che sia impossibile. Invece è la speranza che ci fa attraversare i problemi, non evitarli, perché la speranza è più forte. La speranza sa che l'ultima parola non sono i problemi, ma è il futuro che c'è al di là dei problemi».
Guardando al futuro, quale strada dovrebbe intraprendere la Perdonanza Celestiniana per continuare a parlare alle nuove generazioni e non restare solo memoria storica?
«Beh, deve aiutare a comprendere le conseguenze del male e le complicità. Allora si capisce anche quanto abbiamo bisogno di perdono e quanto il perdono permette, come abbiamo detto prima, il futuro. Nei giovani molte volte c'è la paura del futuro, forse proprio perché manca questo senso dell'aggiustare, del riparare. Quindi qualche volta il futuro sembra troppo complicato per i problemi o le evidenti difficoltà che abbiamo ognuno di noi, ma il perdono ci permette di riparare e quindi di essere più forti delle difficoltà, di non arrenderci alle prime difficoltà. La Perdonanza è proprio questo».
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