L’intervista al prof tornato dall’Albania: «Che bello il cielo senza sbarre. E adesso sposerò la mia Vanessa»

L’uscita dalla prigione: «Ho provato una vertigine. È stata dura ma ho trovato anche tanta umanità». La compagna: «Senza di lei non sarei qui». Il futuro: «Non è finita, affronterò il processo e collaborerò»
L’AQUILA. Ha posato la valigia, ascoltato il silenzio e fatto una lunga doccia. Dopo settantacinque giorni di carcere in Albania, il ricercatore di fama internazionale Michele D’Angelo è tornato nella sua casa all’Aquila, tra i profumi e gli affetti familiari.
Professore, ci descrive il momento dell’arrivo a casa?
«Ho solo appoggiato la valigia e ho ascoltato il silenzio. Non ho dormito molto, ma non importava. Ero lì. Ero tornato. Ogni cosa mi sembrava un richiamo alla realtà, come se dovessi ancora convincermi che fosse tutto vero. Eppure, nel cuore della notte, ho sorriso. Perché ero libero. Accanto a me dormiva Vanessa, la mia compagna. E la prima cosa che ho fatto, al mattino, è stata aprire gli occhi e chiedermi se fosse tutto vero o solo un sogno».
Cosa ha fatto subito dopo?
«Ho aperto la finestra e guardato il cielo senza sbarre. Ho respirato. Non c’era nulla di straordinario in quel gesto, ma per me era tutto. Avevo bisogno di silenzio, sì, ma anche di contatto umano. Di camminare. Di sentire i miei passi su un terreno che non fosse cemento grigio».
Il primo pensiero?
«Vanessa. Finalmente ho potuto abbracciarla senza essere controllato dalle guardie. Lei che ha camminato con me in ogni giorno di buio, anche da lontano. Lei che ha portato la mia voce fuori, quando io non potevo parlare».
Ha sentito molte persone?
«Ho ricevuto tantissime telefonate. Colleghi, studenti, amici lontani. Anche qualche voce istituzionale che mi ha fatto sentire meno solo».
Il momento esatto in cui ha capito che stava uscendo?
«Ho provato una vertigine. Come se stessi lasciando un mondo e rientrando in un altro. Il suono della porta che si apre, il cielo sopra di me, il sorriso delle guardie… tutto era amplificato. In quei secondi ho pensato a tutte le persone che mi hanno sostenuto in un momento così difficile e hanno fatto di tutto per farmi tornare a casa».
Fino all’arrivo in Italia a notte fonda.
«Sì. L’arrivo a Fiumicino è stato un ritorno ai sensi: l’odore del caffè, le voci familiari, il dialetto romano che mi ha fatto sorridere. E poi L’Aquila, la mia città. Il mio rifugio… mentre parliamo sono in centro, è un’emozione indescrivibile».
Che cosa le è mancato di più?
«Tutto. Ma più di altro è mancata la possibilità di scegliere e la libertà. In quei momenti comprendi come piccoli gesti quotidiani che diamo per scontati abbiano in realtà un valore immenso. Una passeggiata senza meta, guardare l’orizzonte, prendere un caffè con un amico, andare a trovare un caro, accarezzare i miei gatti…».
Parliamo di sentimenti: lei ha passato giorni davvero difficili...
«E in situazioni come questa serve tempo, serve spazio per metabolizzare ciò che è accaduto. Bisogna ritrovare la normalità, senza rimuovere il dolore, ma accogliendolo come parte di ciò che si è vissuto. Solo così si può tornare a vivere davvero, senza dimenticare, ma trasformando l’esperienza in consapevolezza. In carcere ho avuto momenti in cui ho pensato che non ne sarei uscito. Ma poi arrivava una lettera, una parola, un gesto. E la forza e la speranza tornavano».
Si sente cambiato?
«Sì. Non so ancora come, ma so che qualcosa dentro di me si è spostato. Forse ho imparato a non dare nulla per scontato».
Chi l’ha maggiormente sostenuta a livello istituzionale?
«Un po’ da tutte le autorità italiane. L’ambasciata, il consolato, la Farnesina: ci hanno sostenuto fin dal primo momento, con competenza ma soprattutto con umanità. Non ci siamo mai sentiti soli. Vorrei esprimere gratitudine al sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi, al deputato Luciano D’Alfonso, ai rettori dell’Università dell’Aquila, il nostro amato e compianto professor Alesse e l’attuale professor Graziosi, che sono stati preziosi, presenti, importanti. Il loro sostegno ha avuto un valore che va oltre le parole».
Com’è stato trattato in carcere?
«Nonostante la detenzione sia stata dura, mi sento di ringraziare il direttore del carcere di Fier, le guardie e i tanti ragazzi che ho conosciuto lì. In un momento così delicato sono stati un punto di riferimento, un conforto, una forma di umanità che non mi aspettavo e che porterò sempre con me. Posso aggiungere un ultimo ringraziamento?».
Prego.
«Quello più speciale va alla direttrice del mio dipartimento, la professoressa Annamaria Cimini. La sua presenza, il suo sostegno discreto ma costante, sono stati per me un punto fermo in mezzo alla tempesta».
E adesso?
«Ora ho bisogno di fermarmi. Di ascoltarmi. Ma tornerò presto alla normalità, perché la mia normalità è insegnare, sperimentare, condividere».
Quando tornerà al lavoro?
«Lunedì. Non vedo l’ora di tornare nei miei spazi, nel laboratorio, riprendere in mano i miei progetti scientifici e rivedere i miei studenti e colleghi».
Che cosa si porta dietro da questa esperienza?
«Le condizioni carcerarie in Albania sono dure. La lingua è una barriera, la distanza dalla famiglia è un dolore costante. Ma ho incontrato anche umanità, anche lì. Sto collaborando con le autorità albanesi. E i miei avvocati mi tengono costantemente aggiornato. Sono tornato su cauzione, sì, e ho l’obbligo di firma. Ma non mi pesa. Perché ogni firma è un promemoria: sono libero, e la libertà va custodita».
A che punto è il procedimento giudiziario?
«La chiusura delle indagini è prevista a novembre».
E poi?
«Dovrò affrontare il processo, che si farà lì, in Albania, e devo essere a totale disposizione della giustizia albanese. Molti giornali albanesi pensano che io sia libero e basta, ma in realtà sono in libertà su cauzione e restano in corso le indagini e tutto il processo in Albania».
Non è finita, quindi...
«No».
E Vanessa?
«Senza di lei non sarei qui. Ha fatto molto più di quanto si possa raccontare. Ora la sposo».
Una proposta ufficiale?
«Per me sì, bisogna vedere cosa risponde lei (ride)».
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