Di Rupo, ex primo ministro del Belgio: «Figlio di immigrati abruzzesi tra miniere e povertà»

Originario di San Valentino in Abruzzo Citeriore, oggi è un europarlamentare: «Contro di noi razzismo, nei locali ci vietavano l’ingresso»
PESCARA. «Sono legato a questa terra. Pensi che l’italiano che parlo è un derivato dell’abruzzese. Mia madre era analfabeta e parlava solo in dialetto». Ci sono storie che rappresentano una generazione. Questa è una di loro. Elio Di Rupo, classe 1951, è stato il primo ministro del Belgio dal 2011 al 2014, dopo una delle più lunghe crisi di governo del Paese. Oggi è europarlamentare. Ma la sua storia inizia nella nostra regione, e più precisamente a San Valentino in Abruzzo Citeriore, nel Pescarese. È da lì che suo padre si trasferì in Belgio dopo la Seconda guerra mondiale per lavorare come minatore. Una storia simile a quella di tanti altri abruzzesi che nell’emigrazione videro una fuga dalla povertà.
Di Rupo, lei è legato all’Abruzzo?
«Ho un rapporto affettivo con questa regione. E poi, sa, l’italiano che parlo non è altro che un derivato dall’abruzzese (ride, ndr). Mamma era analfabeta, parlava solo in dialetto».
Così arriviamo subito al grande tema: la storia della sua famiglia è uno spaccato della storia degli abruzzesi e degli italiani che lasciarono la loro terra per cercare migliori condizioni di vita nel secondo dopoguerra.
«Come la storia di tante famiglie di quell’epoca, inizia dalla povertà assoluta».
Di dov’è originario?
«La mia famiglia è di Nocciano, ma i miei genitori si trasferirono a San Valentino in Abruzzo Citeriore. Non avevano niente, si viveva nella miseria. E la grande povertà era aggravata dal numero di bocche da sfamare, perché allora non c’erano contraccettivi».
Quanti eravate in famiglia?
«Io allora non ero nato, ma in famiglia c’erano già 6 figli. Quando ci fu l’occasione del Belgio, mio padre la colse al volo».
Spieghiamo il contesto ai lettori.
«Dopo la Seconda guerra mondiale il Belgio aveva un disperato bisogno di minatori per estrarre il carbone, ma nessun belga voleva più farlo, perché il lavoro era durissimo. Ore e ore dentro le gallerie, anche a 1.200 metri profondità, e con il rischio di morire lì sotto, perché gli incendi scoppiavano frequentemente. Allora ci fu un accordo tra Italia e Belgio: l’Italia mandava la manodopera e il Belgio gli vendeva carbone a buon prezzo».
Suo padre quando partì?
«Nel 1948. Due anni dopo mia madre lo raggiunse. Era l’unico modo per tentare di sfuggire alla povertà. Per molti italiani trasferirsi in Belgio fu difficile. Sa, ho la sensazione che si conosca poco questo segmento della storia delle migrazioni dall’Italia».
Che intende?
«Le faccio un esempio. Quasi nessuno sa che il 50% degli italiani che sono partiti poi sono tornati indietro. Il passaggio dal clima dell’Italia alle miniere del Belgio per molti fu troppo forte. Però c’era la povertà, e quindi chi era abbastanza forte rimase».
E suo padre?
«Morì nel ’52 in un incidente in bicicletta. L’anno prima ero nato io: mia madre si trovò a crescere, da sola, sette figli».
La povertà non vi ha abbandonato.
«Vuole sapere com’era la casa in cui ho passato i primi anni di vita?».
Racconti.
«Gli italiani erano tutti operai o minatori. Vivevamo nei sobborghi, le case erano baracche. Ricordo perfettamente che la mia non aveva il pavimento. Mura e tetto erano lamiere, e sotto c’era soltanto la terra».
Come ha fatto sua madre a tirare su sette figli da sola?
«Non ha potuto, per quello servivano i soldi. I miei tre fratelli più grandi furono mandati in un orfanotrofio con il sostegno del governo belga. Le cose migliorarono leggermente quando loro divennero abbastanza grandi da lavorare. Ci trasferimmo in una casa di mattoni, anche se aveva i servizi all’esterno, in fondo al giardino».
Era forte il sentimento di comunità degli emigrati italiani?
«Nessuno aveva nulla, eppure c’era una grandissima solidarietà. Dopo la morte di mio padre, i nostri vicini di casa ci aiutarono tanto. Qualche tempo dopo arrivarono polacchi e marocchini nei sobborghi dove vivevamo».
Una situazione che ricorda le periferie di oggi. Ci fu integrazione?
«Le racconto un aneddoto. Mia madre era molto cattolica, ma solitamente non andava in chiesa. A un certo punto, però, smisero di fare le messe in latino e iniziarono a farle nella lingua nazionale. E quando lei voleva seguire la messa andava a quella in polacco, anche se non capiva niente (sorride, ndr). A parte tutto, con loro l’integrazione fu immediata. Con i marocchini fu più complicato, ma ricordo che noi li invitammo a casa per un piatto di spaghetti e loro ricambiarono con il cuscus. Ci trovammo subito».
E il razzismo da parte della società belga?
«Esisteva. Ricordo delle insegne fuori certi locali: “Vietato ai cani e agli italiani”. Questo durò fino al 1956, quando ci fu il disastro di Marcinelle (un incendio in una miniera che provocò 262 morti, di cui 136 italiani. Molti erano abruzzesi, ndr). Quella catastrofe cambiò la percezione degli italiani: era come se avessimo sacrificato la nostra vita per contribuire all’economia del Belgio. A quel punto l’integrazione fu completa. Ma c’è anche un altro fattore che ha favorito questo processo».
E cioè?
«Gli italiani erano belli! Ricordo che gli uomini si facevano vedere la domenica con i costumi a “pavoneggiarsi”. Ci furono molti matrimoni misti e questo accelerò tutto».
Finora ha raccontato della povertà a cui erano costrette molte famiglie italiane emigrate in Belgio. Manca la parte della sua storia in cui un immigrato arriva a essere primo ministro, la pubblicità di quel famoso ascensore sociale che oggi non funziona più.
«Senza il sostegno dello Stato non sarei mai riuscito a proseguire i miei studi. Questo è vero. Così come oggi qualche parametro nell’erogazione delle misure di aiuto andrebbe cambiato, ma credo ci sia qualcosa di più profondo che ha bloccato l’ascensore sociale».
Si spieghi meglio.
«Penso ci sia un po’ di confusione tra aiuto dello Stato, volontà individuale e spirito della famiglia. Per me è soprattutto lo sforzo personale a fare la differenza. E quello non è naturale. Dipende dal contesto in cui cresci».
Parla di quel senso di fame che si ha quando si viene dal basso?
«Non proprio. Mi ricordo che una volta mia madre perse 100 franchi e fummo costretti a mangiare pane con spalmata sopra una crema alla nocciola per un mese. Ciò che intendo dire è che, anche se non avevamo nulla, io non mi sono mai sentito povero, non avevo nemmeno capito di esserlo finché non sono andato a scuola, perché avevo l’amore di mia madre. La prima volta che sono stato triste in vita mia è stato dopo la sua morte, qualcosa mai provato prima».
È l’amore che manca alle famiglie di oggi?
«Diciamo che ora i conflitti sono molto presenti nelle famiglie. Questo rende più difficile avere la forza di investire in se stesso».
E la sua volontà è sempre stata quella di entrare in politica?
«Per niente! Nel periodo universitario pensavo che avrei seguito la carriera accademica. La politica, quella vera, è come la religione: serve la vocazione per seguirla. E a quei tempi ancora non era arrivata. Pensi che il giorno in cui sono entrato nel gabinetto ministeriale avevo appuntamento per discutere la mia entrata all’università di Berkeley».
Qual è stato il suo percorso politico?
«Sono partito dal basso, dalle municipalità. Nel 1982 sono stato eletto alla Camera dei rappresentanti. Quasi 10 anni dopo, nel 1991, mi proposero di diventare ministro dell’istruzione. Poi sono stato vice premier o e nel 2011 primo ministro».
In questo percorso ha mai subito discriminazioni per via della sua omosessualità?
«Mai, ma forse il mio caso è un po’ speciale. Ho vissuto insieme alla mia compagna quasi vent’anni. Lei sapeva che io ero bisessuale ed eravamo liberi, entrambi. Poi ci fu una campagna mediatica contro di me per farmi passare come pedofilo».
Deve essere stata dura.
«Ho resistito a queste diffamazioni perché ero consapevole della mia innocenza. Hanno alzato un polverone contro di me ma, ovviamente, non c’era niente. Ad ogni modo, i miei orientamenti sessuali non sono mai stati un ostacolo. Non posso dire di aver conosciuto una discriminazione per questo, ma non sono sicuro che sia la realtà di tutti».
Abbiamo parlato del passato, ora proviamo a parlare del presente. Attualmente lei è europarlamentare: che Europa vede oggi?
«Guardandola con un po’ di razionalità, direi che il concetto di unità fa parte dell’Europa, ma in realtà è una struttura sui generis. Sicuramente con queste regole governare un’Europa a 27 è impossibile. Nel 2002, quando abbiamo deciso di far entrare 10 Stati dall’Est, bisognava agire in modo diverso».
Intende dire che l’Unione non si sarebbe dovuta allargare?
«No, ma allora si doveva scegliere con quali regole farli entrare. C’erano due possibilità: o ai 10 nuovi Stati si dava uguale diritto di voto come per gli altri 15 Paesi membri, ma a quel punto sarebbe stata necessaria una riforma politica dell’Unione europea; oppure, che è ciò che dice oggi Macron, si doveva costruire una comunità politica europea ma senza dare a questi Paesi il diritto di voto. E invece hanno dato il diritto di voto senza cambiare l’Unione. E quindi ci troviamo ad avere a che fare con ministri come Orban e Fiko che rendono impossibile governare».
E sul riarmo dell’Unione Europea? Lei è un socialista.
«Parlerei piuttosto di difesa, che per l’Europa è importante, ma bisogna evitare di comprare le armi dagli americani: dobbiamo produrle noi».
Ma l’Unione europea non è stata costruita sui valori della pace, sul principio del non ricorso alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti?
«Mitterand diceva sempre: “Tutti i pacifisti sono in Occidente, ma i missili sono a est”. I valori fondamentali dell’Unione li sento miei, sono la nostra identità, ma vede oggi cosa succede? Da soli non bastano: guardi ciò che sta succedendo a Gaza, cosa fa Netanyahu, cosa fa Putin. Non possiamo difendere i nostri valori e il mondo con i trattati».
Ha parlato di Gaza. Come giudica quello che sta accadendo?
«È un genocidio. Non riusciamo a muoverci perché ci sono lobby potentissime in tutto il mondo che ce lo impediscono. Però bisogna distinguere tra Israele e il suo governo, perché sono due cose diverse. Ci tengo a sottolinearlo».
Che idea si è fatto di Netanyahu?
«Lo conosco bene. Quando ero vice primo ministro, era il 1998-99, ebbi una lunga conversazione con lui, che era appena arrivato al governo. Ciò che mi disse allora spiega le motivazioni che lo spingono oggi».
Ovvero?
«È ossessionato dall’idea di cacciare i palestinesi fuori dalla Palestina. Mi disse che non avrebbe mai permesso che ci fosse una continuità di arabi tra la Giordania e Gerusalemme. La guerra, questo clima esasperante, di oppressione, è tutto finalizzato a spingere i palestinesi via dalla loro guerra».
Grazie, Di Rupo. Solo un’ultima domanda. Nella sua storia sua madre è il personaggio chiave, quello senza cui, forse, niente sarebbe stato possibile. Racconta ai lettori un ultimo aneddoto su di lei?
«Mi ha fatto sentire amato e io ho amato lei. Ricordo di non essere mai stato così fiero di mamma come quando, riuscì a farle scrivere la firma su un documento per il matrimonio di mio fratello. Di solito firmava con una croce, ma avevo passato ore e ore insieme a lei per insegnarle a scrivere il suo nome. E quella volta ci riuscì, anche se ci mise due minuti. Fui orgogliosissimo (ride, ndr)».
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